Trento
Rapporti sentimentali e crepe da rinsaldare.
Non è più la fine del mondo se finisce un matrimonio.
Non è più la fine del mondo se finisce un matrimonio.
Oggi Anna Karenina non avrebbe dovuto decidere in maniera così radicale quale vita scegliere e poi sicuramente non si sarebbe buttata sotto un treno per la vergogna, il senso di colpa, le pressioni sociali.
Ed anche Emma Bovary probabilmente avrebbe deciso con maggiore serenità di lasciare il marito, senza avvertire come insopportabile il peso di una moralità tradita.
Oggi, il modello di famiglia "allargata" ha ridisegnato la geografia del rapporto con confini sempre più ampi, introducendo forme più "civili" di confronto tra ex coniugi, anche per la cura ed il bene dei figli.
Ed è un fiorire di zie acquisite, di nonni in più, di altri fratelli con cui giocare o azzuffarsi, il tutto condito da spazi resi sempre più accessibili ad accogliere e condividere nuovi modi di fare famiglia.
D'altra parte, "Nulla è per sempre", o, per citare un film di Verdone, "L'amore è eterno finché dura", e quindi dobbiamo rassegnarci al fatto che i rapporti cambiano e spesso prima di rendercene conto siamo già lontani, da un'altra parte, a chiederci cosa non ha funzionato.
Eppure, accanto ad aperture impensabili, solo fino a qualche anno fa, si affiancano forme sempre più preoccupanti di rottura con modalità tribali.
In alcuni casi, sempre più numerosi purtroppo, violenza e sopraffazione sembrano le uniche ragioni da obiettare alla parola fine. Nessuna assunzione di responsabilità, nessuna autocritica.
Ed in questo continuo gioco di potere o di gioco al massacro, spesso si sceglie un'altra forma per affossare il rapporto trasformandolo in un "non rapporto", a cui spesso ci si sente indissolubilmente legati.
Forse l'inizio è una crepa, come quelle che un giorno compaiono sul muro, un filo che improvvisamente notiamo sulla parete e che a dispetto della sua dimensione potrebbe invece nascondere un problema grave, proprio alle fondamenta della casa, proprio alla base del rapporto.
Si inizia con qualche dettaglio che stona, piccoli segni, perché a volte, non servono fatti eclatanti, quelli, quando si innescano sono già azioni consapevoli con un obiettivo tangibile, dichiarato.
Sono i semplici gesti incontrollati, spesso impercettibili, smorfie che si compongono sui visi, che spingono a muovere diversamente le mani, che fanno cambiare passo, movimento dell'incedere, postura, a rivelare un cambiamento.
Ed è così che un castello comincia a sgretolarsi, che le fondamenta risultano cedevoli, quasi a nostra insaputa.
A volte una piccola crepa, una fessura inoffensiva, porta dritto al problema, al cuore del disagio, ed è l'unica testimone a rivelare una storia diversa che forse non ci appartiene più, che sentiamo distante, che ha già beneficiato di accomodamenti, troppi.
Proprio come è successo a Pablo Simò, il protagonista dell'ultimo libro di Claudia Piñeiro, "La Crepa", anche lui ha sottovalutato una serie di indizi che, sommati, avrebbero dato un solo risultato. L'unico evidente.
La storia è ambientata a Buenos Aires, in uno studio di architetti specializzato nell’individuare case “demolibili”, tirarle giù e costruire al loro posto edifici redditizi, dove assieme a Pablo, lavorano il boss, un uomo senza tanti scrupoli e sogni e Marta, una donna molto bella, non più tanto giovane, ma un'eterna insoddisfatta che sui " cantieri" in mezzo a tanti uomini cerca conferme e gratificazioni.
L'architetto, 45 anni, conduce una vita o meglio una "non vita", come da copione. Sposato con una moglie ancora piacente, una figlia nel pieno della contestazione adolescenziale, in una città che morde e spera ed in cui lui vive ai margini.
Ogni giorno compie lo stesso tragitto per tornare a casa, sempre lo stesso, ogni giorno, per non dover muovere una sola virgola del suo vissuto.
Segretamente è innamorato – o così almeno crede – di Marta, e da anni concentra tutte le sue energie per fermare i rari momenti reali o immaginari di contatto.
Ripercorre un migliaio di volte conversazioni anche quelle minime, frammenti di ricordi, telefonate e la sua voce, confondendo in questa triste danza passato e futuro.
Ogni piccolo dettaglio gli serve per cercare di sopravvivere alla monotonia di una vita sempre uguale.
La sua "non storia" gli permette di tirare avanti ogni giorno, compiendo sempre gli stessi passi, seguendo sempre gli stessi pensieri, quasi per non cadere in una trappola, in tentazione.
Quando rimane solo e pensa a Marta, ripercorre tutto il suo corpo ed allora non ha freni inibitori costruisce perfettamente un amplesso, anche quando dall'altra parte c'è sua moglie.
Confonde a volte visi e nomi, ma rimane tutto dentro di lui, ogni giorno passa così.
Questa vita perfetta o imperfetta – dipende da come si guarda – un giorno, subisce uno scossone, una giovane donna irrompe in studio e pronuncia quel nome, quello di un vecchio cliente, l'innominato.
Ed è così che riemerge con prepotenza tutta la storia accaduta tre anni prima, che ha avuto inizio con una crepa, una ferita, un piccolo segno di decadenza, nel muro dell'abitazione di Nelson Jara, un inquilino con il quale lo studio dovette intraprendere un contenzioso.
La questione si fece complicata, aggrovigliata, sino a diventare un problema, un grosso problema, sino a precipitare in un baratro, prendendo una brutta piega.
Poi, succede quello che deve succedere, e poi, più niente, l'oblio, finché il meccanismo della memoria, riprende a ticchettare, riattivandosi e riportando a galla una sera, quella sera, con tutta la sua tragedia.
Quella crepa non c'era nel muro, invece, quella ferita, lui se la portava addosso da sempre, e quella ragazza brutalmente glielo rivelò, senza tanti giri di parole.
Niente sarebbe più essere lo stesso, per anni lo stesso tragitto, stesso mezzo di trasporto, solito caffè nel solito bar, spesa il sabato, cinema subito dopo, scopare una volta la settimana pensando a Marta, un lavoro che era diventato un'altra cosa... e lui che non si riconosceva più.
Una crepa aveva rimescolato la sua vita, una crepa che lui credeva fosse solo su un muro aveva provocato un danno irreparabile, minando le fonti, le stesse fondamenta della sua vita.
E allora?
Allora, non è il buon senso che può salvarci, almeno non per sempre. Osare e guardare giù dal cornicione, sporgersi e provare l'ebbrezza del salto, risolve a volte più di tanti anni di analisi.
Qual è il prezzo da pagare?
Una vita in perenne equilibrio, tra burroni inebrianti e strade asfaltate, adrenalina a mille e calma piatta in cui crogiolarsi.
Un'alternanza necessaria perché "non si può morire dentro", perché prima o poi qualcosa si incrina senza più ritorno, ma se la riempiamo di verità, forse, ma non è detto… si può ricominciare a vivere.
Minella Chilà
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