Correva l anno
30 anni fa l’arresto dei criminali della Uno Bianca: ecco la vera storia

Ieri sul Nove è andato in onda il docufilm sulla guerra condotta dalla banda della Uno bianca che, dal 1987 al 1994 ha agito praticamente indisturbata, a Bologna, nella Romagna, arrivando a colpire fino a Pesaro.
È la rappresentazione reale (anche troppo) di quello che è successo in sette anni di omicidi, rapine, indagini ed errori compiuti dagli inquirenti che ha portato alla condanna di persone estranee ai fatti.
Una storia pazzesca che a distanza di oltre 30 anni fa arrabbiare ancora tutti, e che non è stata dimenticata da nessuno, in special modo dai parenti delle vittime.
Il docufilm parte dall’inizio, dalle prime rapine dai caselli autostradali, alle coop, alle gioiellerie, agli uffici postali e le banche. La storia illustra in parallelo gli stati d’animo delle forze dell’ordine costrette ad essere testimoni di assassini e delle morti dei propri colleghi uccisi senza pietà dalla banda di criminali senza nessun motivo apparente. Le indagini che per anni non hanno portato a nulla, l’esasperazione della polizia di Stato e le mille ipotesi legate a quarti, quinti e sesti poteri che poi è stato appurato non sono mai esistiti.
Ma durante le indagini sono stati commessi molti errori, basti pensare che l’identikit di Roberto Savi è rimasto appeso per anni nelle stanze di tutte le questure dell’Emilia Romagna senza che nessuno si accorgesse che era praticamente la foto di un collega. Mistero anche sull’arma che uccise tre carabinieri in uno scontro a fuoco che era in appartenenza a solo 20 persone in tutta l’Italia, uno di questi era Roberto Savi.
Poi la costruzione di un pool apposito per indagare sulla banda dell’Uno Bianca che però in 9 mesi non aveva portato a nulla e per questo fu sciolto. Poi la svolta improvvisa grazie a due poliziotti Pietro Costanza e Luciano Baglioni che avevano promesso al collega Antonio Mosca in punto di morte che i suoi assassini sarebbero stati ammanettati.
Si deve appunto a questi due poliziotti, (nella foto) che dopo la scioglimento del pool, hanno continuato testardamente le indagini fino all’arresto della banda della Uno Bianca. Con pervicacia incredibile i due avevano deciso di controllare a turno le banche della zona dove i criminali compivano dei sopralluoghi prima delle rapine.
Dopo giorni e giorni di appostamenti videro una Uno Bianca passare davanti alla banca e rallentare fino quasi a fermarsi per poi ripartire. Presi ormai dalla disperazione i due poliziotti la seguirono fino all’arrivo al paese di Torriana dove il conducente dopo essere sceso entrò in casa al civico 29. I due allora controllarono presso il comune chi abitava in quella casa venendo a sapere che l’inquilino di chiamava Fabio Savi. Il nome allora non diceva nulla a nessuno.
Dopo lo svilupparsi delle indagini i due vennero a sapere che era il fratello di Roberto Savi e Alberto Savi, entrambi dipendenti della polizia di Stato. Il film attraverso le testimonianze dei poliziotti riassume tutte le drammatiche dinamiche che hanno portato alla scoperta che gli assassini di decine di persone erano poliziotti. Nel documentario inchiesta viene ricostruita anche la storia controversa di Eva Mikula, convivente di uno dei fratelli Savi a cui si deve però la condanna di tutti gli assassini.
Gli assassini nell’ultima parte del film si sentono braccati, sono consapevoli di essere seguiti e scoperti. Poi, il 21 novembre 1994, l’arresto del capo Roberto Savi dentro la questura di Bologna mentre era al lavoro, come del fratello Alberto in quella di Rimini e di Fabio Savi bloccato a 20 km dal confine svizzero mentre tentava la fuga.
Pochi mesi fa si è tornato a parlare della banda della Uno Bianca dopo la richiesta da parte di Ludovico Mitilini, fratello di Mauro, morto nell’agguato, il 4 gennaio del 1991 alla periferia di Bologna, dove morirono tre carabinieri di vent’anni, massacrati dai killer della banda della Uno Bianca di riaprire le indagini.
Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini caddero sotto una pioggia di 222 proiettili nella strage del Pilastro. Da quel giorno sono passati 30 anni, ma molti dubbi sono rimasti.
Ma che fine hanno fatto quelli della banda che tra il 1987 e il 1994 commisero centotrè crimini, soprattutto rapine a mano armata, provocando la morte di ventiquattro persone e il ferimento di altre centodue?
Da ricordare che la maggior parte dei componenti della banda armata erano membri della Polizia di Stato. I componenti della banda vennero tutti arrestati alla fine del 1994 e successivamente condannati.
I processi si conclusero il 6 marzo 1996, con la condanna all’ergastolo per i tre fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi e per Marino Occhipinti. Ventotto anni di carcere per Pietro Gugliotta, diminuiti poi a diciotto. Luca Vallicelli, componente minore della banda, patteggiò una pena di tre anni e otto mesi; venne inoltre stabilito che lo Stato italiano versasse ai parenti delle ventiquattro vittime, la somma complessiva di diciannove miliardi di lire.
Particolare e controversa la posizione di Eva Mikula la compagna di Fabio Savi che dopo 4 processi in Corte d’assise e 2 in appello ed 1 in Cassazione ha dimostrato la sua estraneità ai crimini.
Le dichiarazioni di Eva Mikula risultarono comunque decisive per la condanna dei fratelli Savi. Ma ora vediamo che fine hanno fatto tutti i membri della famosa Uno Bianca.
Roberto Savi – Condannato all’ergastolo ai processi, Savi stupì tutti per l’estrema freddezza con cui, beffardo e provocatorio, parlava dei reati più atroci da lui commessi; alle domande non rispondeva «sì» oppure «no», bensì «affermativo» e «negativo».
Il 3 agosto 2006, Roberto Savi fece richiesta di concessione del provvedimento di grazia, al tribunale di Bologna. La domanda venne ritirata il 24 agosto, dallo stesso Savi, a seguito del parere sfavorevole espresso dal procuratore generale bolognese, Vito Zincani. Il 1º ottobre 2008, si è risposato con una detenuta olandese del carcere di Monza. È tutt’ora detenuto.
Fabio Savi – Dopo la condanna all’ergastolo, venne trasferito nel carcere di Sollicciano a Firenze, e in seguito in quello di Fossombrone a Pesaro. Il 24 settembre 2009, Fabio Savi, dopo circa un mese di sciopero della fame presso il carcere di Voghera, venne ricoverato all’ospedale della città, per motivi clinici. La motivazione dello sciopero sarebbe la richiesta da parte di Savi di essere trasferito in un carcere più vicino alla sua famiglia e la possibilità di lavorare per provvedere alla stessa. Il 4 gennaio 2010, venne trasferito nel carcere di massima sicurezza di Spoleto.
Nell’ottobre del 2014, chiese di poter usufruire a posteriori del rito abbreviato, che avrebbe tramutato l’ergastolo in trenta anni di carcere. La richiesta venne respinta il 3 dicembre 2014, dalla Corte d’Assise di Bologna. È tutt’ora detenuto.
Alberto Savi – Fratello minore di Roberto e Fabio. Assieme ai fratelli, formava la struttura principale della banda. Debole di carattere, subì la personalità più forte e dominante dei fratelli maggiori. Sconta l’ergastolo dal 26 novembre 1994. Il 23 ottobre 2010, Alberto Savi chiese di poter uscire dopo sedici anni scontati in carcere. Dopo ventitré anni di carcere, ha beneficiato di un permesso premio nel febbraio 2017, per incontrare la madre ricoverata in gravissime condizioni di salute. Dal 2019, usufruisce di un permesso premio per le vacanze natalizie.
Pietro Gugliotta – Non partecipava mai alle azioni omicide del gruppo. Venne comunque condannato a diciotto anni di reclusione. Anche lui poliziotto, svolgeva la funzione di operatore radio nella questura di Bologna assieme all’amico Roberto Savi. Venne scarcerato nel 2008, dopo quattordici anni di reclusione, grazie all’indulto e alla legge Gozzini.
Le due figlie di Gugliotta, hanno completato la procedura per il cambiamento di cognome, anche per cominciare a vivere in pace mentre purtroppo dopo l’arresto di Gugliotta il suocero si suicidò, probabilmente per la vergogna.
Marino Occhipinti – Membro minore della banda, prese però parte a un assalto a un furgone della Coop di Casalecchio di Reno, il 19 febbraio 1988, durante il quale morì una guardia giurata e per questo venne condannato all’ergastolo. Anche lui poliziotto presso la squadra mobile di Bologna, al momento dell’arresto, avvenuto il 29 novembre 1994, era vice-sovrintendente della sezione narcotici della Squadra mobile. In una recente intervista, Marino Occhipinti ha chiesto perdono ai familiari della guardia giurata uccisa. Dal 2002, lavora presso una cooperativa.
Il 30 marzo 2010, con un decreto motivato del tribunale di sorveglianza, Marino Occhipinti, dopo sedici anni di detenzione, usufruì di un permesso premio di cinque ore per partecipare ad una Via crucis a Sarmeola di Rubano, nel Padovano, assieme ad altri detenuti e accompagnato da operatori sociali. L’11 gennaio 2012, gli venne concessa la semilibertà.
Il 20 giugno 2018, il suo avvocato, Milena Micele, ha presentato in udienza la documentazione a favore della libertà, che comprende le relazioni sul suo lavoro svolto fuori e dentro il carcere con la cooperativa Giotto. Secondo il provvedimento del Tribunale di sorveglianza, il suo pentimento è autentico, ha rivisitato in modo critico il suo passato e non è socialmente pericoloso. Marino Occhipinti è stato quindi scarcerato, il 2 luglio 2018.
Luca Vallicelli – Poliziotto al momento dell’arresto, avvenuto il 29 novembre 1994, era agente scelto presso la sezione Polizia Stradale di Cesena. Membro minore della banda, partecipò solamente alle prime rapine, che si conclusero senza omicidi. Patteggiò tre anni e otto mesi in carcere, ed è attualmente un uomo libero, destituito dalla Polizia di Stato.
Nel marzo del 1998 il padre dei fratelli Savi si è ucciso e il suo corpo è stato ritrovato in un’automobile dello stesso tipo e dello stesso colore usato dai suoi figli per uccidere 24 persone. Giuliano Savi, 72 anni, ha lasciato un biglietto con la frase: “Chiedo perdono a Dio, ma non ce la faccio più ad andare avanti”. Poi ha preso una dose massiccia di sonnifero (nell’auto sono state ritrovate sette scatole di Tavor). All’interno sono stati ritrovati anche altri messaggi, scritti sia in corsivo sia in stampatello.
Eva Mikula – Dopo 7 processi dove è sempre stata assolta per «non aver commesso il fatto» ha scritto un libro che ha venduto molte copie. Negli anni seguenti ha detto di avere una bellissima famiglia, dei figli, che lavora nel settore immobiliare e che si è perfettamente integrata nella società italiana. Ha dichiarato anche di dedicarsi al volontariato in un’associazione che contrasta la violenza sulle donne portando l’esperienza di una persona che è riuscita a uscire dall’inferno. Poi però qualcosa deve essere andato storto, infatti nel 2020 al resto del Carlino da Londra dove vive ha dichiarato: «La mia pena è infinita, è a vita; niente protezione, niente anonimato, niente risarcimento. Vivo nel baratro del mio passato, nascondendomi nell’oblio per affrontare e sconfiggere ogni giorno il pregiudizio dell’opinione pubblica, conquistare il mio quotidiano e dare speranza a quella dei miei figli».
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