Cui Prodest Archivi - La voce del Trentino https://www.lavocedeltrentino.it/category/home/arte-e-cultura/cui-prodest/ Quotidiano online indipendente Wed, 04 Sep 2024 06:59:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.2 Caravaggismo ed evoluzione estetica tra Rinascimento e Barocco https://www.lavocedeltrentino.it/2024/09/04/caravaggismo-ed-evoluzione-estetica-tra-rinascimento-e-barocco/ Wed, 04 Sep 2024 06:59:42 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=477960 Caravaggismo ed evoluzione estetica tra Rinascimento e Barocco

Ho sempre considerato curiosa la sottolineatura che i seguaci del grande Pietro Longhi, padre della storia dell’arte e dei critici d’arte di quell’estrazione, hanno prodotto sul ruolo di Caravaggio nel panorama del passaggio dai pregevoli rigori del Rinascimento alle aperture del Sei-Settecento. Caravaggio resta un unicum nel suo periodo, e anche un messaggio estetico che […]

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Caravaggismo ed evoluzione estetica tra Rinascimento e Barocco

Ho sempre considerato curiosa la sottolineatura che i seguaci del grande Pietro Longhi, padre della storia dell’arte e dei critici d’arte di quell’estrazione, hanno prodotto sul ruolo di Caravaggio nel panorama del passaggio dai pregevoli rigori del Rinascimento alle aperture del Sei-Settecento.

Caravaggio resta un unicum nel suo periodo, e anche un messaggio estetico che viene capito appieno soprattutto nel Novecento, in presenza delle simili, mutatis mutandis, grandi fratture delle Avanguardie storiche. 

Mi sovviene, con altra specificità, il ruolo che ebbe Andrea Schiavone nel Cinquecento, celebrato scientemente in una grande mostra mondiale (prestiti da tutti i maggiori musei del mondo…) a Palazzo Correr a Venezia nel 2015: se non ci fosse stata questa grande mostra, non sarebbe stato possibile scoprire uno spessore importante del Cinquecento a Venezia.

La pittura originalissima di Andrea Meldola detto Schiavone è, infatti, del tutto fuori dall’eredità di Giovanni Bellini e dalle conseguenti magistralità di Tiziano e Tintoretto e Bassano e Veronese, che peraltro riconoscevano Schiavone esplicitamente come maestro…

Ma se noi lo sfiliamo dalla evoluzione del Rinascimento veneziano, poco cambia. Cosa voglio dire? Che ci sono casi di geni che anticipano vertiginosamente le novità venture, ma che (come Caravaggio e anche Schiavone) non lasciano tracce significative nell’evoluzione estetica coeva.

Avevo studiato, in relazione a Schiavone, Tiziano e gli altri mostri sacri del, diciamo così, Rinascimento veneziano (anche se Venezia non aveva un medioevo cupo da cui risorgere a differenza del resto d’Italia…) e ho capito che cosa veniva riconosciuto a Schiavone: velocità pittorica ed efficacia drammaturgica, accanto ad approssimazioni del disegno che lo connettono alla coeva modernità anti-calligrafica di El Greco.

Parallelamente, ho studiato il supposto caravaggismo di Artemisia Gentileschi, sostenuto da diversi critici a livello puramente verbale e, con assoluta onestà intellettuale, non ne ho trovato sufficienti segni: in quel caso, la storia personale della Gentileschi è sufficiente motivo delle crudezze che la romana rappresenta, e non certamente l’iperrealismo caravaggesco.

E, sul piano pittorico, Artemisia s’inserisce nel main-stream dell’evoluzione verso il Seicento: cioè, nessun uso drammaturgico del chiaroscuro e degli sfondi neri, e un certo manierismo nella definizione di visi e figure, nettamente al di qua del geniale caricaturismo caravaggesco. 

Ribadisco che ho trovato questa quadratura di fronte alla antologica meritoria, di Urbino del 2024 e in corso fino a tutto ottobre, su Federico Barocci. Infatti, Barocci è esattamente l’anello mancante tra il grande Rinascimento e il Barocco, e colma lo iato che porta a Rubens.

Iato che, qualora fosse rimasto, come prima di questo grande contributo scientifico di Palazzo Ducale d’Urbino, lasciava un ambito di indeterminazione sui destini del Seicento, nel quale la sfida di Caravaggio aveva maggiore cittadinanza, pur senza fondare alcuna scuola, aggiungendo al vento di follia seicentesco un ulteriore robusto soffio, come Longhi suggerisce.

Invece, il respiro di Caravaggio non è sulla sua epoca, ma sul Settecento e sull’Ottocento. Con suggestioni rivoluzionarie che operano anche nel Novecento.

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Mostre: Federico Barocci detto «il Fiori» riconquista Urbino https://www.lavocedeltrentino.it/2024/09/02/mostre-federico-barocci-detto-il-fiori-riconquista-urbino/ Mon, 02 Sep 2024 05:45:17 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=477501 Mostre: Federico Barocci detto «il Fiori» riconquista Urbino

Federico Barocci detto il Fiori (Urbino, 1528/1535 – Urbino, 30 settembre 1612) è tornato a casa, a Urbino, fino al 6 ottobre 2024 presso il Palazzo Ducale. Davvero una bellissima sorpresa la sua mostra antologica alla Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale di Urbino. Avevo già notato la qualità pittorica sublime di Barocci un pezzo […]

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Mostre: Federico Barocci detto «il Fiori» riconquista Urbino

Federico Barocci detto il Fiori (Urbino, 1528/1535 – Urbino, 30 settembre 1612) è tornato a casa, a Urbino, fino al 6 ottobre 2024 presso il Palazzo Ducale.

Davvero una bellissima sorpresa la sua mostra antologica alla Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale di Urbino. Avevo già notato la qualità pittorica sublime di Barocci un pezzo qua un pezzo là, un’opera al Museo degli Uffizi a Firenze, un’altra al Prado, poi all’Accademia di S. Luca a Roma, alla Galleria Borghese, al Louvre, e così avanti, un pò in tutti i più importanti musei del mondo: dunque è stata un’esperienza diffusa e ripetuta, ma, per la distribuzione dei suoi lavori in mezzo mondo, mi era sfuggita la sua cifra, importantissima eredità storica, di una mano che ha congiunto con magistralità sonante il 500 al 600, illustrando con la pittura il recupero del controllo dell’Uomo sul mondo e l’inizio dell’espressività sbrigliata, coraggiosa e originale del Barocco.

Da quando Longhi ha beatificato Caravaggio, sono tutti a cercare i collegamenti tra il lombardo e i grandi di precedente gloria, anche quando non c’entrano proprio niente, come Artemisia Gentileschi o appunto Barocci.

Caravaggio è stato un sorprendente unicum, rivoluzione oppure no lo dirà la storia ulteriore. E grazie Longhi, per averci fatto soffermare su quel gaglioffo iracondo e sulle sue intuizioni dirompenti, che oggi sappiamo valutare ma che all’epoca gridavano allo scandalo, allo stravagante e un poco pure al cupo della morte prima dell’estrema unzione.

Senza di lui, o, meglio, senza la scoperta dello storico dell’arte per eccellenza, dal XV al XVII l’arte scorrerebbe in continuità, salvo poi rivedere tutto alla luce (il buio) che la fotografia fa calare sulla pittura dalla seconda metà del XIX, che apre a tutti i caravaggismi rivoluzionari possibili immaginabili.

Se escludiamo un attimo Caravaggio e la sua clamorosa sottolineatura nella storia dell’arte, scopriamo i grandi profili dei personaggi che passo passo ci portano da Raffaello a Rubens e poi oltre, fino allo shock della tecnologia dell’ottica fotografica.

Mi viene da dire che la scuola degli storichetti dell’arte che si è generata dall’insegnamento del grande Longhi ha fatto purtroppo male all’estetica, a ricercare l’oggi post-rivoluzionario nello ieri, a cercare segnali di destrutturazione nel tempo che fu.

Ecco allora la grande utilità di questa antologica: svelare connessioni importantissime in serena successione storica per quella parte dell’estetica del XV e XVI secolo che guardava verso la modernità del XVII e che ancor’oggi riconosciamo con il rispetto di una paternità attiva, quella dell’Umanesimo e della sua apoteosi in Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio fino all’apice di Rubens e Guido Reni.

A osservare il percorso, presi dal vortice, non mancano Giorgione e Correggio, le cose e la luce, insomma. Ma ad accogliere Barocci alla fine del suo clamoroso percorso di vita e arte è proprio lui, il vero, grande emblema del Seicento: Pietro Paolo Rubens. Meglio chiamarlo in italiano, perché malgrado il coraggio nordeuropeo dalle Fiandre e dalla Germania, dei protestanti, Rubens è pieno di Italia, di Genova e Roma, di Venezia e Firenze. E di Barocci.

Ma cosa porta Barocci a Rubens? Gli porta la somma del Rinascimento italiano e gli apre le porte del Barocco: col disegno gli digerisce Raffaello e Leonardo da Vinci, tra la grande qualità raffaellesca del tratto e la pregevole concezione volumetrica e geometrica; con gli sfumati, che solo Leonardo padroneggiava altrettanto, dona trascendenza alle belle figure; con la forza del movimento michelangiolesco inizia a concepire una superiore movenza della forma, quella del 600 appunto. Il tutto in assoluta eccellenza esecutiva. Maniera?

Ma non scherziamo…! L’effetto antologico della grandiosa qualità barocciana ne fa una pietra miliare, anche grazie all’inserimento educatissimo dei particolari, che solo Giorgione aveva avuto il coraggio di rappresentare così e che lui, invece che ribadirli come didascalie pittoriche, usa per dare senso ulteriore e comparare spirito con materia. Così Barocci impara dal veneto gli sfondi ambientati, che per lui, poco mobile perché malato, coincidono spesso con il palazzo Ducale di Urbino, sua città e nido.

Da Correggio e Guercino gli arriva la luce, che però lui modera con sapienza per lasciare il passo alla moltiplicazione del senso semiologico dell’opera, ricca come solo in Tintoretto prima di lui.

E Caravaggio? Semplicemente assente.

Barocci è urbinate, è malato, e il suo cosmopolitismo artistico è figlio di enorme classe individuale e di una completa capacità di respiro del suo tempo. Per lui la qualità della pittura è una condizione indiscutibile. Non è come Orazio Gentileschi che ogni tanto si abbandona ad approssimazioni, pur condividendo l’eredità raffaelliana.

Barocci mette in campo il suo respiro affannoso per estrarre l’ossigeno che produce un’arte che non può proprio essere definita di maniera, come andava in quegli anni. Questa bellissima antologica, infatti, fa giustizia: Barocci è il coronamento del Rinascimento e l’apertura del coraggio seicentesco, che è Pietro Paolo Rubens, mentre Caravaggio fa il matto.

È un paradosso, ma la decontestualizzazione napoleonica con lo spoglio delle chiese, dona un rilievo non architettonico all’arte pittorica e in particolare ai soggetti sacri che l’urbinate Federico realizza. Giusto vederli fuori dal loro contesto? In un certo senso possiamo dire di sì, perché l’arte pittorica ben presto si distaccherà dai luoghi e invece creerà luoghi: la fotografia non perdona… Però, spero proprio che qualcuno ci proponga non alternative informali di realtà virtuale per le nostre estasi, ma ambientazioni delle opere d’arte sacra in quei contesti violentati dalla rivoluzione giacobina e dall’anticlericalismo politico-filosofico di Napoleone e oltre: vorrei tanto capirne il progetto di trascendenza, osservando con il visore ad alta definizione le pale d’altare di Federico Barocci sui loro altari, nel clima di quel ‘500 profondo e di quel ‘600 vorticoso, di Riforma e di Controriforma, con il calvinismo che aveva aperto porte e finestre e tutto calcolava…

Una prefigurazione di cui devo ringraziare questa mostra e i suoi curatori, Luigi Gallo e Annamaria Ambrosini Massari.

A cura di Sergio Bevilacqua 

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70° Festival Pucciniano a Torre del Lago, a Viareggio il centenario del grande lucchese https://www.lavocedeltrentino.it/2024/08/14/70-festival-pucciniano-a-torre-del-lago-a-viareggio-il-centenario-del-grande-lucchese/ Wed, 14 Aug 2024 09:13:49 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=474549 70° Festival Pucciniano a Torre del Lago, a Viareggio il centenario del grande lucchese

Scrivere di Puccini per il centenario dell’eredità lasciataci è questione densa di significato. In particolare, se ci si concentra sulla sua principale dimensione di vita di comune mortale lucchese, quella di voler vivere a Torre del Lago, sulle sponde di quel lago di Massaciuccoli creato dall’uomo, con un’invenzione ecologica di grande portata, paragonabile a quella […]

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70° Festival Pucciniano a Torre del Lago, a Viareggio il centenario del grande lucchese

Scrivere di Puccini per il centenario dell’eredità lasciataci è questione densa di significato.

In particolare, se ci si concentra sulla sua principale dimensione di vita di comune mortale lucchese, quella di voler vivere a Torre del Lago, sulle sponde di quel lago di Massaciuccoli creato dall’uomo, con un’invenzione ecologica di grande portata, paragonabile a quella di un’opera lirica magistrale. 

Mi lascerò portare da una comunicazione medianica, come se il Maestro mi parlasse: infatti mi sono calato nella realtà di Torre del Lago, da tempo ribattezzata Torre del Lago Puccini, dopo essermi appassionato alla sua opera, per capire quale era l’effetto che quel luogo aveva su di lui.

L’ho fatto negli anni, nei lustri e nei decenni, conoscendo la sua epigona travagliata, Simonetta, con flânerie frequentando la sua casa museo, osservando i dintorni e lo specchio del lago, parlando, come fece Lui per 30 anni, con gli abitanti di lì.

Ho scrutato da sociologo delle Arti la vita che vi scorreva ancora 30 anni fa, fatta anche di barche e di cani da caccia e di beccacce e beccaccini e fucili e canneti e palude e toschi veraci maledetti alla Malaparte e pescatori e l’onda turistica che rapsodicamente occupava la dritta via tra lago e grande litorale, al seguito di tanti programmi di festival pucciniano (oggi al settantesimo) e di coloritissimi frequentatori lgbtq+ anche ante litteram. 

Tutto accadeva accanto a insediamenti d’archeologiche infrastrutture industriali ed estrattive ancora visibili, che portarono Giacomo ad andarsene e a morirne forse tre anni dopo.

E, ancora dopo, ad andarsene anche al vecchio piccolo teatro Puccini, spostato per lasciare spazio all’imponente insorgenza di un moderno teatro, inaugurato nel 2008, che ricorda quelli greci di Taormina, Siracusa o Pompei ed è già esempio di ciò che il teatro dal vivo rappresenta oggi, a differenza del vigore e centralità civile dei tempi periclei delle Dionisie. 

La suggestione è simile, e i 3370 posti del Gran Teatro Giacomo Puccini, pieni di vita e calore, sono ormai un elemento socio-territoriale ineludibile, un unico canto con lo specchio di Massaciuccoli, con le suggestioni macchiaiole e veriste e con il mito globale delle opere del grande maestro.

Il Gran Teatro, che oggi io dico stupendamente monumentale, è un esempio di architettura di paesaggio. Bello? Brutto? È forse bella o brutta la Tour Eiffel? È forse bella o brutta l’eiffeliana Statua della Libertà? È forse bella o brutta l’Opera House di Sydney? Solo una mente troppo semplice può cercare risposta a questa domanda…

Perché, quando ci si trova di fronte a opere del genere, nella loro imponenza, che siano sullo skyline di Parigi, su quello del Mondo Nuovo o Nuovissimo, o sulle dolcezze del panorama toscano verso le Apuane, se ne deve prendere atto. C’è grandezza… E perché? Eiffel celebrava a Parigi con i suoi ferri l’epoca dell’industria figlia della rivoluzione scientifica, poi sempre lui a New York donava all’Occidente il primo simbolo della rivincita della Libertà dell’immaginario sulla retorica, sul sopruso e sul governare cinico, l’Opera House dava all’Australia la cittadinanza architettonica al mondo di questo futuro occidentale folle e apertissimo. 

Così, il Gran Teatro Puccini dice a modo suo quanto grande è il panorama dei personaggi pucciniani. Quanto grande è Tosca, grande come la Statua della Libertà e S. Michele su Castel S. Angelo che le dona ali eterne per un tuffo memorabile, che ha fatto bella mostra anche nella messinscena firmata da Franconi Lee quest’anno al Regio di Parma. E Manon Lescaut libera come la morte…

E la vita della Bohème… E i fantasmi de “Le Willis”, qui al Gran Teatro per la regia di Pizzi, che mi permetto di accostare a “Le Villi” per la regia di Maestrini che ho molto gradito al Teatro Regio di Torino. E il mito del West e dei cercatori d’oro… E l’enigma dell’oriente della dolcissima Butterfly, sfruttato biecamente da Pinkerton, così plasmata dalla regia suprema 2023 di Pizzi al 69. Festival… E quello terribile di Turandot, sempre seducente nelle riedizioni come quella di quest’anno all’Arena di Verona con lo storico, sontuoso allestimento zeffirelliano… 

Ecco che questo manufatto imponente ricorda un uomo di straordinario vigore creativo umanistico: al suo cospetto, anche l’esteso specchio d’acqua artificiale, voluto da ingegneri e naturalisti, risulta più figlio di arte poetica che di varia economia. Puccini, cacciato dal suo eden a causa della rivoluzione industriale, con la sua opera cambia i connotati al paesaggio e ne cancella le prepotenze manifatturiere. 

Sentivo di dover parlare di questo Teatro, trovarne il suo vero “luogo”, che non è solo geografico ma ben di più culturale e artistico. Con una venatura distraente di economia turistica.

Non ho potuto vedere tutto il settantesimo festival pucciniano, e quanto mi è dispiaciuto! Apprezzata dal profondo la regia di Bohème di Gasparon, non vedere anche la sua Manon Lescaut… Non poter ammirare il dittico Le Willis-Edgar, e Turandot (ah Turandot!) per la mano magica di Pizzi…

Un settantesimo epocale, per molti motivi. Uno di questi è certamente l’esordio alla presidenza del prof. Luigi Ficacci. Ci conoscemmo tempo fa all’Accademia di S. Luca a Roma, uno dei templi della civiltà artistica italiana, e subito scattò una luce di simpatia, fatta credo di una certa consonanza intellettuale. Mi preannunciò senza esprimersi apertamente che la sua missione a Torre del Lago sarebbe stata storica.

Infatti, la scelta di dare al grande e caro Pier Luigi Pizzi la direzione artistica del festival del centenario è stata di grande portata e respiro.

La sua scelta è stata per chi ha trovato una ottima sintesi di tradizione e innovazione, che è riuscito quasi a mettere d’accordo i giovani melomani rampanti innamorati di Vick buonanima, Michieletto e Robert Wilson con i tradizionalisti che vogliono vedere magistralità nella messinscena di una supposta “lettera”, alla Zeffirelli per intenderci. Ecco, Pizzi è soprattutto questo prezioso trait-d’union, con la sua cifra di piacevole estetismo, il rispetto profondo delle emozioni operistiche, che tanti contemporanei smorzano con simbologie enigmistiche. 

E non solo. 

Sono un sociologo delle arti, e un sociologo non è mai semplice commentatore, lavora sempre al di là delle regole. Mi voglio quindi sbilanciare con limpidezza su un tema molto praticato nel pettegolezzo operistico.

Banale? No. Qual è la portata di un grande maestro? Come si eredita la sua grandezza? Non vi è strada migliore della vicinanza. E che questa sia per amore o professione, non rileva assolutamente: l’Arte vale di più di qualunque vita, e passione, e strategia. L’Arte è un processo che avviene sopra la testa dell’autore, che si chiami Puccini, Illica o P. L. Pizzi.

Dunque, è errato soffermarsi su elementi troppo anagrafici. Massimo Gasparon ha già dimostrato di avere qualità. Massimo Gasparon è il nostro tramite per un perenne rapporto col genio dei suoi maestri, come io mi sento il tramite con i miei, Pietro Bellasi e Piero Bontadini.

Quindi, questo settantesimo Festival Puccini non solo ha celebrato un’icona dell’Umano a un secolo dalla sua eredità (Giacomo Puccini), ma anche un grande caposcuola interprete dell’arte operistica crocevia del Parnaso (P. L. Pizzi) e, in aggiunta, ha fatto molto di più: ha messo in piena luce un allievo, Massimo Gasparon, che farà vivere per decenni e decenni ancora la grande arte del suo primo maestro. Che ne approva l’operato con i suoi occhi: ho visto il suo sguardo, lo sguardo di Pizzi apprezzare la sovrapposizione già visibile della pregiata cifra del suo allievo prediletto. Ci tornerò, su questo argomento…

La sua pregiata cifra… La regia di Bohème, mia prima passione pucciniana. Ho un rapporto profondo con quest’opera: era tra i simboli culturali del gruppo di adolescenti giustappunto un pò bohémien che vivevano le loro profondità al riparo delle opportune nebbie reggiane. Si ascoltava Erik Satie, Bob Sieger, L. V. Beethoven, Arlo Guthrie, Pietro Mascagni, Bob Dylan, De André e si discorreva creativamente di Baudelaire e Kafka, di Proust, della Beat generation, del Gruppo 63, di Gunther Grass, Freud, Lacan, Deleuze e Baudrillard. Ma Puccini, Puccini… certo, Les Fleurs du Mal, certo Jukebox all’idrogeno… ma Momus…!

E Mimì e Musetta, nostre icone femminili, Parigi… Insomma, un grande spettacolo dentro di me e di noi, che prosegue in una rievocazione profonda anche 50 anni dopo. Per la regia di Massimo Gasparon, sulla scia, come detto, magistrale di Pier Luigi Pizzi. Buone le voci, ma lascio ai musicologi che già hanno tranciato i loro giudizi specialistici la valutazione analitica: io, che ho imparato musica e canto in teatro, osservando e gradendo o meno, mi sento di dire che il cast era all’altezza.

Inoltre, l’interesse di chi è smaliziato in questo campo era tutta sull’interpretazione registica. Nella quale ho riscontrato alcuni colpi di genio e tanta scuola. Bravissimo Gasparon: un capolavoro lo scivolamento sul tramonto della silhouette amorosa tra il primo e il secondo atto, ottima la interpretazione da “Les halles” pre-Beaubourg/Centre Pompidou di Momus. Molto ben riuscito l’inserimento delle video proiezioni. Bello, bello.

La Prima di Tosca ha visto invece la regia di Pizzi in persona. Puccini amava più d’ogni altra la sua casa sul lago artificiale di Massaciuccoli, da dove all’alba partiva con la barca a remi a caccia di beccacce e beccaccini. Ho fatto alcuni anni fa la stessa cosa con l’amico Simonetti, due case in là rispetto a casa Puccini, per capire meglio alcuni lati della personalità del Maestro. Credo proprio di esserci riuscito.

Il genio cosmopolita, acclamato a Milano, Roma, Napoli e Parigi, amava questo clima palustre, questi odori forti, quest’umidità pervasiva… Un Puccini carnale quello che ci rimanda “casa sua”, a Torre del Lago. Come solo un occhio sociologico può fare, volendo confrontare la vita quotidiana di Puccini, con quella di Verdi e Rossini attraverso le loro case, vediamo un Giacomo alla ricerca proustiana (novità di Massaciuccoli ed entourage bohémien), un Giuseppe alla sfida con la realtà (S. Agata e il suo redditizio latifondo coltivato), un Gioachino raffinato e cittadino (le sue case nei centri urbani della natale Pesaro, di Bologna, ove incontrava Ugo Bassi, o di Parigi, ove incontrava un giovane Wagner, pur distratto com’era da Antoine Carême e dalla cucina).

E Floria Tosca? Tosca era Roma. S. Andrea della Valle era ancora sommersa nel popolare quartiere tra piazza Navona, Largo Argentina, senza l’arteria del Corso Vittorio Emanuele II. La chiesa, insieme a Palazzo Farnese e Castel S. Angelo, sono i poli di questa vicenda tragica, che si muove nel cuore della Roma papalina e anche della sua opposizione repubblicana. Puccini propende per la seconda, è evidente e Pizzi lo segnala. Anche qui il cast è stato all’altezza dell’importante occasione. Era il Puccini cosmopolita quello di Tosca, la sua modernità, in questo stupendo scenario naturale in una serata scintillante. 

Allora buon lavoro a Ficacci neopresidente che, con queste ottime premesse, sarà mi auguro il fautore della celebrità definitiva e globale di questo Festival, importante per l’opera lirica, Parnaso delle arti. E per la celebrazione del grande genio spontaneo di musicista e drammaturgo di Giacomo Puccini.

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Si entra nel vivo del Rossini Opera Festival edizione 2024 https://www.lavocedeltrentino.it/2024/08/10/si-entra-nel-vivo-del-rossini-opera-festival-edizione-2024/ Sat, 10 Aug 2024 04:55:27 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=473667 Si entra nel vivo del Rossini Opera Festival edizione 2024

È entrato nel vivo il programma della 45a edizione del Rossini Opera Festival che si svolge a Pesaro, città natale del compositore. Il Festival, che si sta svolgendo nell’anno in cui Pesaro è Capitale italiana della cultura, proporrà dal 7 al 23 agosto 2024 ben cinque opere per un totale di trenta spettacoli. Ha inaugurato […]

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Si entra nel vivo del Rossini Opera Festival edizione 2024

È entrato nel vivo il programma della 45a edizione del Rossini Opera Festival che si svolge a Pesaro, città natale del compositore.

Il Festival, che si sta svolgendo nell’anno in cui Pesaro è Capitale italiana della cultura, proporrà dal 7 al 23 agosto 2024 ben cinque opere per un totale di trenta spettacoli. Ha inaugurato il Festival una nuova produzione di Bianca e Falliero, diretta da Roberto Abbado e messa in scena da Jean-Louis Grinda.

L’opera mancava al ROF dal lontano 2005. La star soprano anglo-australiana Jessica Pratt ha conquistato, con la sua classe e resistenza al lungo lavoro di scena imposto dall’opera, il pubblico del rinnovato Auditorium Scavolini, che ha molto apprezzato anche Aya Wakizono (Falliero en travesti).

Nell’ovazione generale, che aveva anche il senso del giusto incoraggiamento al susseguirsi degli spettacoli dal 7 agosto in poi, e del grande sforzo organizzativo e impresariale della messinscena di ben cinque opere, si è avvertita un’ombra di perplessità per l’interpretazione registica di Grinda, che ha un poco forzato rispetto a libretto e drammaturgia con un’ambientazione ibrida e in parte criptica di chiave novecentesca.

Poco male, è il mio avviso: quando ci sono tali grazie artistiche, anche una regia sospetta non rileva poi tanto. È la forza della grande arte, che, in una Prima, consente anche una presa di ulteriori misure, e vedremo nelle ulteriori repliche se il regista prenderà atto delle asperità avvertite e preciserà meglio il suo pensiero con sfumature semiologiche adattate…

Si dimostrano, ancora una volta: 1. L’opportunità delle regie innovative, che creano originalità operando prevalentemente in sfumature di trama basate sull’aspetto video, quello libero dalla lettera di spartito e libretto; 2. L’esigenza però di garantire un coordinamento drammaturgico tra le innovazioni e la “lettera” dei testi, prevenendo così le disfunzioni eventuali o, dall’altra parte, inutili gravami per le regie.

Va anche detto peraltro che, se non si discute un poco, se non si sperimenta, la vita dell’organismo prezioso e intrinsecamente mutageno dell’opera lirica non viene valorizzato appieno… La tentazione all’automatismo di ripetizione melomane è il correlato di una esperienza reiterata e ragionevole che trovi spazio nei cartelloni e loro interpretazioni, ma io sono convinto che agli albori del terzo millennio e dopo 1, 2, 3 secoli di successo tradizionale, la vera vita dell’opera lirica debba venire legata al rischio dell’evoluzione calcolata.

Dove deve avvenire, però, quest’evoluzione? Dove può: nella “funzione video” (scenografie – che oggi sono moltissimo proiezioni -, costumi, luci, geometrie coreografiche, physique du role…). E come garantire la lettera della parola e della musica? Con un presidio specifico interfaccia tra direzioni artistiche dei teatri e regie, il cosiddetto “dramaturg”, che è anche difensore della parte tradizionalista del pubblico dell’opera, così importante ancor’oggi.

E così, è partito alla grande sui temi della qualità di voci e musica e sul dibattito registico, il grande 45° Rossini Opera Festival. Seguirà un’altra nuova produzione, Ermione, affidata alla bacchetta di Michele Mariotti e alla regia di Johannes Erath, titolo che non veniva eseguito al Festival dal 2008.

Due saranno le riprese: L’equivoco stravagante ideato per il ROF 2019 da Moshe Leiser e Patrice Caurier, diretto da Michele Spotti, e Il barbiere di Siviglia di Pier Luigi Pizzi, creato per il ROF 2018 e stavolta diretto da Lorenzo Passerini. Chiusura con la celebrazione del 40o anniversario della prima esecuzione in tempi moderni del Viaggio a Reims, che sarà presentato in forma di concerto con la direzione di Diego Matheuz.

Nel corso del secondo dei ROF Talks, tenuto il 7 agosto nella Sala della Repubblica del Teatro Rossini, è stato poi annunciato il programma del Rossini Opera Festival 2025. Giacomo Mariotti, responsabile di Stampa e Comunicazione della Fondazione Rossini, documenta la 46a edizione della manifestazione, che si terrà dal 10 al 22 agosto 2025 e presenterà tre titoli operistici, con due nuove produzioni ed una ripresa.

Inaugurerà il Festival il 10 agosto una nuova produzione di Zelmira, diretta da Giacomo Sagripanti, che torna a Pesaro dopo il Moïse et Pharaon del 2021. La messinscena sarà affidata all’estro del regista spagnolo Calixto Bieito, al suo debutto pesarese.

La seconda nuova produzione, in scena dal 12 agosto, sarà L’Italiana in Algeri, diretta da Dmitry Korchak, già sul podio al ROF nella Cambiale di matrimonio del 2020, e ideata dall’ottima Rosetta Cucchi, che a Pesaro ha firmato in passato Adina (2018) e Otello (2022). Sempre l’anno prossimo sarà invece ripreso, dall’11 agosto, Il Turco in Italia di Davide Livermore, molto apprezzato al ROF del 2016, affidato alla direzione di Diego Ceretta, al debutto operistico a Pesaro.

Quanto al programma concertistico, accanto ai Concerti di Belcanto e ai Concerti lirico-sinfonici (uno dei quali proporrà tre Cantate rossiniane in nuova edizione critica), sarà proposta la Messa per Rossini, scritta in occasione del primo anniversario della sua morte.

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Isadora Duncan ed Eleonora Duse, via alla tournée dell’Isadora Duncan International Institute https://www.lavocedeltrentino.it/2024/05/24/isadora-duncan-ed-eleonora-duse-via-alla-tournee-dellisadora-duncan-international-institute/ Fri, 24 May 2024 04:08:44 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=459658 Isadora Duncan ed Eleonora Duse, via alla tournée dell’Isadora Duncan International Institute

Sophie Eustache, Producer in Europa dell’Isadora Duncan International Institute (IDII) di New York, ha annunciato il calendario della tournée in Italia 2024 dell’importante istituzione tersicorea americana, che ha già piacevolmente sorpreso e intrattenuto il pubblico italiano negli ultimi anni. Il tema dell’anno è il rapporto tra Isadora Duncan, la grande innovatrice americana (S. Francisco 1877 […]

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Isadora Duncan ed Eleonora Duse, via alla tournée dell’Isadora Duncan International Institute

Sophie Eustache, Producer in Europa dell’Isadora Duncan International Institute (IDII) di New York, ha annunciato il calendario della tournée in Italia 2024 dell’importante istituzione tersicorea americana, che ha già piacevolmente sorpreso e intrattenuto il pubblico italiano negli ultimi anni.

Il tema dell’anno è il rapporto tra Isadora Duncan, la grande innovatrice americana (S. Francisco 1877 – Nizza 1927) della danza, e la grande innovatrice del teatro di prosa Eleonora Duse (Vigevano 1858 – Pittsburgh 1924), di cui ricorre quest’anno il centenario di una scomparsa solo materiale, perché il messaggio della Duse è sempiterno e così rimarrà.

Sempre aleggiante tra le due grandi donne, il loro principale trait-d’union, Gabriele D’Annunzio, il cui Vittoriale, capolavoro museale di estetica del paesaggio, ha ospitato già l’anno scorso il tributo dell’IDII all’amicizia del Vate con l’americana.

La serata inaugurale della tournée si svolgerà venerdì 24 maggio alle 18.30 nella fastosa cornice della palladiana Villa di Maser, cortesemente resa disponibile da Vittorio Dalle Ore, arricchita dall’inaugurazione del restauro dedicato al Ninfeo, ideato da Marcantonio Barbaro.

Lo spettacolo, intitolato «Isadora Duncan, Musa fra le Muse», si svolge con una coreografia ispirata alla giovane Duncan, elaborata dal Direttore Artistico IDII Jeanne Bresciani, e propone un ritorno alle origini della sua creatività.

Domenica 26 maggio, poi, alle 18.30 al teatro Duse di Asolo (TV) verrà rappresentata, in Prima nazionale, la nuova produzione IDII ideata da Sophie Eustache, per celebrare il centenario di Eleonora Duse, dal titolo «L’Abbraccio della Duse alla Duncan».

Il tema è non a caso ricorrente, e già nella tournée 2022 era stato progettato un primo spettacolo di teatro-danza dedicato a queste innovative artiste, quasi coeve e grandissime.

L’evento aveva di fatto anticipato le commemorazioni del centenario della morte di Eleonora Duse e accostato la grande attrice alla figura della Duncan, collegandone sottilmente la poetica. Da questa ricerca è nata poi questa ulteriore rappresentazione del tutto nuova, epilogo della stagione teatrale del centenario di Eleonora Duse.

La nuova produzione IDII 2024 “L’Abbraccio della Duse alla Duncan” ha una testimonianza iconologica in uno scatto della famosa fotografa Lois Greenfield, che rappresenta una figura di danza di Isadora Duncan. L’immagine, immersa in una soffusa atmosfera luminosa violacea, evoca il ritorno alla vita della Duncan sostenuta dall’abbraccio con cui Eleonora Duse la curò nel 1913, allorché Isadora era disperata a causa della morte improvvisa dei suoi due figli.

La Duse invitò in Versilia la Duncan, appena seppe che la danzatrice vagava affranta per l’Italia, fuggendo da quanto le ricordava la tragica perdita dei figli, rifiutando addirittura sé stessa insieme alla propria arte. L’accolse maternamente, vera “presenza di sostegno”, per aiutarla a riparare le gravi ferite ed elaborare il lutto, risignificando l’esistenza.

Su tale trama esistenziale Jeanne Bresciani sviluppa una narrazione teatrale che ne evoca le complesse dinamiche, con coreografie della Duncan e con sue creazioni. Esprimendo il volgere delle sequenze narrative, animano la danza brani di Beethoven, Čajkovskij, Scriabin, Chopin, Puccini, Bob Gluck.

A ulteriore corredo iconologico, la foto eseguita da Orlando Sinibaldi durante lo spettacolo “Isadora Duncan e Le figlie di Prometeo” del 29 maggio 2022 al Teatro Duse di Asolo, evoca il periodo trascorso in Versilia dalla Duncan, le passeggiate sulla spiaggia e le conversazioni con la Duse, che si adoperava con affetto per curarne le tragiche ferite e a favorire il suo ritorno alla danza, cioè alla vita.

La nuova produzione Duse-Duncan proseguirà sulle scene con ulteriori repliche: martedì 28 maggio alle 18.00 nel Teatro Rainerum di Bolzano, su invito del Comitato Locale della Società Dante Alighieri; venerdì 31 maggio alle 20.30 nel celebre Teatro Fraschini di Pavia, edificato nel 1773 su prestigioso progetto di Antonio Galli Bibiena.

Per l’acquisto dei biglietti occorre rivolgersi: per la Villa di Maser al sito www.villadimaser.it; per Asolo a www.mailticket.it cliccando “Asolo”, poi “Maggio”, poi “L’Abbraccio della Duse alla Duncan”; per Bolzano, rivolgersi direttamente a sophieoeustache@gmail.com, l’entrata è libera ma su prenotazione nel limite dei posti disponibili.

 

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«Marconi. L’uomo che ha connesso il mondo»: in prima serata su Rai uno la miniserie https://www.lavocedeltrentino.it/2024/05/12/marconi-luomo-che-ha-connesso-il-mondo-in-prima-serata-su-rai-uno-la-miniserie/ Sun, 12 May 2024 05:18:00 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=457318 «Marconi. L’uomo che ha connesso il mondo»: in prima serata su Rai uno la miniserie

Bologna, patria di Guglielmo Marconi, 11 maggio 2024, centocinquantesimo della nascita del grande scienziato. Al Nuovo cinema Modernissimo, un gioiello del Liberty riportato proprio ora agli antichi fasti da una fine ristrutturazione, si celebra un gioiello della scienza, la Radio, fonte di una delle più grandi rivoluzioni dell’umanità, la mediatizzazione estrema che collega tutti con […]

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«Marconi. L’uomo che ha connesso il mondo»: in prima serata su Rai uno la miniserie

Bologna, patria di Guglielmo Marconi, 11 maggio 2024, centocinquantesimo della nascita del grande scienziato.

Al Nuovo cinema Modernissimo, un gioiello del Liberty riportato proprio ora agli antichi fasti da una fine ristrutturazione, si celebra un gioiello della scienza, la Radio, fonte di una delle più grandi rivoluzioni dell’umanità, la mediatizzazione estrema che collega tutti con tutti nel mondo di oggi.

Anteprima per pochi intimi di “Marconi. L’uomo che ha connesso il mondo”, presente il cast, tra cui Stefano Accorsi, interprete dell’inventore bolognese.

Abbiamo ricordato con Stefano e con il principe Giovanelli, discendente di Guglielmo Marconi, i comuni salotti romani di qualche lustro fa… Ed è stata l’utile introduzione per intuire qualcosa di più della miniserie TV che andrà in onda in prima serata su Rai 1 il 20 e 21 maggio.

Conosco bene lo scetticismo, giustificato da lustri di cose inguardabili, che accompagna le produzioni audiovisive italiane. Ma gli ultimi anni come per miracolo hanno cambiato il quadro: non ci contavo, e invece è avvenuto.

Anche se non è da tutti accorgersene, perché il linguaggio filmico è sempre ambiguo e se lo guardi con intransigenza critica e voglia di distruzione ciò può avvenire quasi sempre. Gioco facile quando poi alle spalle ci sono decenni di disastri patetici.

Invece anche questo “Marconi” sorprende positivamente e conferma ciò che penso, e cioè che il vento del cinema italiano è cambiato e che avvengono prodotti di ottima qualità drammaturgica. Non è solo la ottima interpretazione del bolognese-a-sua-volta Stefano Accorsi nei panni del mitico Guglielmo che mi dà questo sentire: l’opera è incalzante, ben costruita, avvincente e giustamente colorita.

I luoghi ed eventi identitari e conosciuti nella cultura popolare soprattutto delle prime generazioni post-belliche riguardo al bellissimo profilo di scienziato (Bologna, Pontecchio poi divenuta Pontecchio Marconi, Roma, il piroscafo Elettra come il nome della figlia, il caso del Titanic, il premio Nobel, i rapporti con Fermi, la scherma con il fascismo…) sono disegnati in modo leggero ed efficace, con un ottimo risultato divulgativo per le serate di prime time televisivo, per cui nasce la cosiddetta miniserie.

Un aspetto molto interessante, dove si sente la mano della regia di Lucio Pellegrini e non solo la vivacità del caso, potremmo definirlo il tema “scienza e potere”: e non mi abbandonerei alle retoriche ideologiche sul fascismo e basta.

Ogni potere politico combatteva (e combatte, ma ora non da solo: ci sono i Grandi Gruppi Globali ad avere più forza degli Stati…) per avere le scoperte al suo servizio, e si contendeva gli scienziati che le potevano produrre.

La metafora sottostante la bella produzione mostrata in anteprima al Modernissimo è proprio quella: le logiche politiche s’inseriscono come puri processi, facilitanti o meno, lo sviluppo di una certa sostanza dirompente, pragmatica nel senso più pieno, che in quegli anni era proprio legata alla fisica sperimentale, sia nelle comunicazioni (caso Marconi) ma anche alla fisica della materia (casi dei ragazzi di via Panisperna ed Enrico Fermi). Comunicazioni e nucleare: ecco lo scontro antropologico, prima che politcoide, del momento.

Tutto questo c’è. E la costruzione filmica è corretta nel linguaggio e nel montaggio. Le interpretazioni attoriali reggono alla perfezione per un’opera di divulgazione.

Da non perdere in tv: sono certo di questo consiglio e riguarda anche i tromboni, non solo i semplici fruitori di un ottimo spettacolo di prime time televisivo.

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Camille Claudel o Auguste Rodin? Irrilevante, ma solo per l’arte https://www.lavocedeltrentino.it/2024/05/02/camille-claudel-o-auguste-rodin-irrilevante-ma-solo-per-larte/ Thu, 02 May 2024 04:23:06 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=455512 Camille Claudel o Auguste Rodin? Irrilevante, ma solo per l’arte

Si è svolto un dibattito sulla autenticità o meno di questa immagine. Essa mostra nei lineamenti dei due grandi artisti ed amanti, sfumature psicologiche assenti nella iconografia precedente e diviene tessera di una vicenda che, data la sua eccezionalità e crudezza, è reale, simbolica e immaginaria insieme. Una “drammaturgia nella drammaturgia” del grande lavoro che […]

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Camille Claudel o Auguste Rodin? Irrilevante, ma solo per l’arte

Si è svolto un dibattito sulla autenticità o meno di questa immagine. Essa mostra nei lineamenti dei due grandi artisti ed amanti, sfumature psicologiche assenti nella iconografia precedente e diviene tessera di una vicenda che, data la sua eccezionalità e crudezza, è reale, simbolica e immaginaria insieme.

Una “drammaturgia nella drammaturgia” del grande lavoro che porta il nome del padre dell’impressionismo in scultura: “The show must go on” e lo fa, nel caso Claudel-Rodin, con passione, plagio, creazione artistica e catarsi.

L’avvertenza che i più grandi manipolatori di foto siano stati i regimi totalitari non ha più rilevanza, oggi. I più grandi manipolatori di foto sono i sistemi tecnologici e digitali che forze di varia estrazione sono in grado di utilizzare. Invece, nell’era dell’opera d’arte NFT e digitale, ove alla benjaminiana riproducibilità tecnica si aggiunge la trasformazione, invisibile o quasi, occorre rivedere la costellazione dei criteri di riferimento.

Ma non perdere la stella polare: che riguarda la vera produzione dell’effetto artistico, che avviene nel fruitore. Vera o falsa l’origine all’arte non importa, nell’epoca di un digitale che presto sarà diffusamente almeno ternario come effetto della fisica quantistica.

Parlare oggi, con la Intelligenza Artificiale nel taschino e il transumanesimo incipiente, di realtà e correttezza di un oggetto visivo, toccato da tecnologie avanzatissime, e mirato a una missione estetica o connessa, è un errore classico di una valutazione ideologica dell’Arte.

Ben vengano il Realismo socialista, l’arte di regime in genere, i testimonial artistici gonfiati o addirittura creati dalla propaganda (perché non c’è grande politica senza arte celebrativa…), come Jacques-Louis David o Antoine-Jean Gros durante l’era napoleonica e tanti, tanti altri (forse pure Andy Warhol…), pagati (direttamente o indirettamente) o sostenuti comunque dalla propaganda, se fanno arte, cioè, producono vera catarsi!

L’immagine sopra di Rodin e Claudel, anche falsa (l’arte non teme la contraffazione oppure il falso tout-court… il capitale sì), è interessantissima. Chi l’ha costruita ha creato un messaggio molto ben riuscito. Non è falsa un’immagine che si addentra nella complessa vicenda estetico-sentimentale di Rodin-Claudel.

Capisco il piano patrimoniale della contraffazione, e anche quello scientifico-storico, per cui tra l’altro quest’immagine è pressoché irrilevante, ma in questo caso va considerato quello artistico.

E quelle due espressioni sono un capolavoro. Sono ottiche diverse, quella del giurista, dell’investitore, dello storico e quella dello studioso di estetica o di sociologia dell’arte.

Chi sarebbe stata Camille Claudel senza Auguste Rodin? E chi sarebbe stato Auguste Rodin senza Camille Claudel? Ma, soprattutto, quanta arte dobbiamo all’incontro dei due? Camille sapeva ciò che faceva? E Rodin?

Il caso Camille Claudel è stato magistralmente trattato da un testo capolavoro di Maria Antonietta Centoducati e messo in scena recentemente. Emergono domande spontanee e risposte che non si possono dare. Di certo Camille Claudel merita ricordo e comprensione. E anche una condivisione nello spirito dell’arte di Auguste Rodin.

Voleva essere scultrice, Camille. Cosa non facile per una diciassettenne cresciuta in una famiglia borghese della Francia di fine ‘800. Auguste Rodin era invece uno scultore già affermato. Camille ne divenne allieva, poi collaboratrice e amante. Nonostante l’affiatamento, anche artistico, il loro fu un amore infelice. Posto di fronte all’eterno dilemma, l’uomo, 24 anni più vecchio di lei, scelse Rose, la storica compagna più volte tradita.

L’amore di Camille così si tramutò in odio e l’ira la spinse a scolpire capolavori, ma la condusse alla malattia mentale. Nel 1913 la madre la fece rinchiudere in manicomio, dove resterà per 30 anni, fino alla morte. Auguste Rodin morirà nel 1917.

Dalle lettere dal manicomio alla madre e al fratello Paul, Camille scriveva: «È stato davvero utile lavorare sodo e aver talento per ricevere poi questo in premio. Mai un soldo, torturata in varie forme, per tutta la vita. Depredata di tutto ciò che dà la gioia di vivere e poi fare una simile fine. […] Mi si accusa (crimine senza pari) di aver vissuto da sola, di essermi circondata di gatti, di cadere preda di manie di persecuzione! […] Vivere qui mi causa un soffrire tale da impedirmi di restare umana. Non riesco più a tollerare gli strepiti di tutte queste creature, la nausea mi attanaglia. […] In fin dei conti si tratta di un parto del diabolico cervello di Rodin. Lo ossessionava un’unica idea, vale a dire che dopo la sua morte io potessi librarmi in volo e raggiungere altezze maggiori delle sue: doveva tenermi in suo potere da morto così come faceva da vivo. Quando lui fosse morto mi sarebbe spettata la stessa infelicità che mi aveva inferto da vivo. Il suo intento è perfettamente riuscito, perché io sono assolutamente infelice!».

L’Arte è terra franca, è un vortice che reinterpreta tutto, e in modo unicamente suo. Così Guernica di Picasso, così Mussolini a cavallo di Sironi, così la scultura di Auguste Rodin e Camille Claudel. Ogni senso filosofico, ideologico, religioso, morale lascia il posto all’effetto estetico, alla catarsi. Molti artisti sono morti per “ciò”. Molti hanno sacrificato e ridotto la loro esistenza, per produrre continue gravidanze e vagiti di vera vita nell’umano.

Guardate quei due visi. Pensate alla grandezza della forma scultorea che è emersa di cui una recente mostra al MUDEC di Milano ha svelato ulteriori versanti, in connubio con la danza. Immaginate il cervello da cui viene: era cosciente del ciclo che attuava col disegno, il materiale, le fusioni? E da dove veniva l’ispirazione? L’Arte stava consumando carne umana? E di chi? È rilevante, o importa solo il risultato, per miliardi di persone? Se non ci fosse stata ingiustizia, sarebbe esistita Camille Claudel? Ma, soprattutto, se non ci fosse stato Rodin? Lei sapeva questo?

Questa foto è arte fotografica oppure digitale oppure ancora tecnica mista, ma invade ed evoca. Quando vedo l’opera di Rodin non riesco a non pensare al crocevia che ogni grande artista rappresenta, fatto di confluenza e di un nome che prevale, giusto perché deve esserci, magari su due: Rodin, rispetto a Rodin-Claudel.

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Willem De Kooning alle gallerie dell’Accademia: il vortice di americana positività https://www.lavocedeltrentino.it/2024/04/22/willem-de-kooning-alle-gallerie-dellaccademia-il-vortice-di-americana-positivita/ Mon, 22 Apr 2024 04:25:26 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=453941 Willem De Kooning alle gallerie dell’Accademia: il vortice di americana positività

Ogni tanto, in certe situazioni, appare ancora evidente il confronto tra locale e globale. E allora si potrebbe pensare che una piccola città debba fare sistematicamente brutta figura. Come Venezia, 40000 abitanti la città lagunare in un Comune di 250000 inclusa una relativamente estesa terraferma, con tutti i difetti per di più dell’Italia (mezza stupida, […]

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Willem De Kooning alle gallerie dell’Accademia: il vortice di americana positività

Ogni tanto, in certe situazioni, appare ancora evidente il confronto tra locale e globale. E allora si potrebbe pensare che una piccola città debba fare sistematicamente brutta figura. Come Venezia, 40000 abitanti la città lagunare in un Comune di 250000 inclusa una relativamente estesa terraferma, con tutti i difetti per di più dell’Italia (mezza stupida, in overflow da varietà, con una civiltà democratica ridicola).

E in effetti Venezia si prende dei rischi che farebbero arrossire qualunque dimensione analoga. Ma c’è qualcosa che la salva: come davanti a una stupenda miniatura storica, a Venezia il cervello si stacca dall’ordinario ed eccolo sprofondare in un vortice di bellezza e di curiosità, sollecitato da una varietà senza fine e da una profondità che nemmeno la suggestione di un rapporto medianico con l’aldilà è in grado di produrre.

Dopo 10 anni alla guida, sentire parlare pragmaticamente Luigi Brugnaro, sindaco di questa città, è molto interessante: egli succede al Sindaco filosofo, Massimo Cacciari, che potremmo definire anche la penultima delle maschere della Commedia dell’arte goldoniana, accanto ad Arlecchino e a Colombina.

Perché l’ultima delle stesse maschere veneziane è proprio quella del Sindaco miranese, imprenditore di successo del lavoro interinale, laureato ma con radici campagnole, radici su cui i 40000 autoctoni lagunari molto hanno scherzato in questi 9/10 anni di governo della città.

So che non se la prenderanno, Massimo e Luigi, di fronte a queste parole, perché sono entrambe persone intelligenti: o meglio, sono sicuro che Luigi apprezzerebbe, mentre sono un pò più dubbioso su Massimo, che quanto ad autoironia difetta piuttosto.

Dunque, Brugnaro ultimo Sindaco della miniatura, nei fatti di 10 anni di governo della città, ha mostrato magistralità in una delle due sole strategie possibili (1. non toccare niente; 2. rivoltarla tutta) per questa diciamo così città, anche se sociologicamente dovremmo dire microcosmo capitale, miniatura impareggiabile, enclave di astrattismo immaginario, proteina spike del virus proprio della sindrome di Stendhal.

E dunque non fare nulla, per rispetto alla sua delicatissima ma finora (1500 anni!) efficientissima omeostasi. Accidia? No no, salubre intuito contadino: ci pensa la natura, dimostra la amministrazione del primo cittadino in carica.

E l’altro, il filosofo del Sestiere serenissimo di S. Polo? Come Sindaco, sarà ricordato per tre cose: 1. l’intervento dogale di costruzione del quarto ponte sul Canal Grande, dal passo che fa infuriare, diverso da quello uguale di mille ponti veneziani, ma ottimo per i cavalli del medioevo prossimo venturo; 2. per essere apparso come personaggio, a testimonianza del mio intuito neo-goldoniano, su una strenna di Mickey Mouse alias Topolino; 3. per avere ottimamente tenuto insieme città lagunare e terraferma, lavorando molto su Mestre.

La domanda del mondo cosmopolita, antropocenico, ipermediatizzato e globale rimane: “Ma tali straordinarie ricchezze, veri patrimoni inestimabili dell’umanità, non uno ma mille, nelle mani di siffatti provinciali?” E quanto cambia, se invece si tratta di un’istituzione museale nazionale come le Gallerie dell’Accademia, incardinata nel Ministero della Cultura come da tradizione napoleonica piuttosto odiata ancora a Venezia dai 40000? Accanto agli ottimi cervelli italici, presi uno per uno però ciascuno un otto miliardesimo dell’umanità, certo la differenza c’è, ma il malanno è solo diverso: la debolezza, la fragilità della laguna si specchia nella laguna della malattia civile, quella dell’Italia.

Però la bellezza ci salverà. E salva le istituzioni e la stessa città di Venezia, sempre e comunque. Dovrebbe finire come Atlantide per non prodursi in quel modo, ma sarebbe solo uno spostamento, con sopravvivenza garantita: dal reale che è immaginario, all’immaginario che è reale. Come Atlantide.

E allora, Tintoretto, Tiziano, Veronese sono pronti a fare da cornice alla bellissima mostra che il Direttore Giulio Manieri Elia presenta alle sue Gallerie dell’Accademia, museo statale appunto, quella dell’americano Willem De Kooning (1904-1997): un mostro sacro dell’espressionismo astratto americano, all’estremo opposto del Rinascimento veneziano.

Mostra di bellezza abbagliante. Grazie alla cornice, a Willem De Kooning, all’intelligenza della Fondazione De Kooning che usa l’occasione per rilanciare la figura del grande artista sul poco conosciuto versante delle sculture bronzee.

E grazie anche alle tre bionde nipotine dell’americano presenti alla mostra, sorridenti (le capisco…), che mostrano il mito in una curiosa dimensione familiare, patrimoniale ed ereditaria.

La scultura di De Kooning è una scoperta di grande effetto e per darle il giusto risalto i curatori, l’importante Gary Garrels, che ha lasciato il S. Francisco Museum of Modern Art (SFMOMA) per Gagosian, il Maggior Mercante, meno sensibile alle sue propensioni WASP (White Anglo Saxon Protestant), e Mario Codognato, l’hanno introdotta tramite tre pezzi emblematici, uno di Giacometti, uno di Rodin e l’altro di Medardo Rosso.

Tutto quadra, e l’esperienza è intensa. Il focus dovrebbe essere sul decennio (1959-1969) in cui l’americano si abbaglia alla luce culturale ed atmosferica italiana, e noi ringraziamo per la dedica.

Ma ciò che si vede è sempre lui, il gigante del colore, la massima autorità nell’analisi ottica della scomposizione della forma, in una esibizione di grandi quadri dove una sorta di caleidoscopio mentale fa partire la mano e produce gradevoli effetti cromatici, luminosi e gioiosi.

E poi quando già siamo intontiti da questa esperienza psichedelica, arriva l’uppercut: le sculture. Sullo sfondo della bellezza pittorica alle pareti, il centro della sala maggiore è abitato dalle figure aggraziate di una manifattura che non perde le geometrie, anche se quasi abbandona la forma.

Giusta la citazione d’esordio ai tre capiscuola novecenteschi, in quanto le sculture di De Kooning ne sono la ulteriore fusione, nel bronzo: c’è la libertà estetica di Giacometti, la figurazione impressionista di Rodin e la deformazione di Medardo Rosso. Garrels e Codognato possono essere orgogliosi: fatti, e non parole.

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Arte come educazione sentimentale sociatrica https://www.lavocedeltrentino.it/2024/03/19/arte-come-educazione-sentimentale-sociatrica/ Tue, 19 Mar 2024 10:36:28 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=448196 Arte come educazione sentimentale sociatrica

Il processo artistico è l’ambito in cui avviene in modo più microscopico ed efficiente l’educazione sentimentale. Le esperienze di arte relazionale delle Stanze del colore di Anna Seccia vanno in modo sostanziale in questa direzione e noi vedremo ora come avviene questo processo. Prima di tutto, occorre fare alcune considerazioni metodologiche e concretamente euristiche. Stiamo […]

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Arte come educazione sentimentale sociatrica

Il processo artistico è l’ambito in cui avviene in modo più microscopico ed efficiente l’educazione sentimentale.

Le esperienze di arte relazionale delle Stanze del colore di Anna Seccia vanno in modo sostanziale in questa direzione e noi vedremo ora come avviene questo processo.

Prima di tutto, occorre fare alcune considerazioni metodologiche e concretamente euristiche. Stiamo parlando di una caratteristica cognitiva umana attivata dagli elementi microscopici della percezione. I nostri sensi funzionano raccogliendo elementi dal mondo esterno: la vista umana rileva la luce e le sue composizioni in forme, linee e colori, l’udito umano rileva eventi fonici, suoni della realtà circostante,

L’ambiente societario dell’arte collettiva è un’area appropriata di test per quest’esperienza. La condizione di conformazione pittorica societaria di Anna Seccia rappresenta un importante ambito di educazione sentimentale: il risultato è una ginnastica microscopica del sentimento, collegata alla produzione di una composizione di micro-atti finalizzati alla produzione di segni che vanno a comporre un’opera.

Un’artista affermata, bravissima e generosa come Anna Seccia è avveduta ma sempre emozionata di ciò che accade nell’esperienze di arte collettiva: però, malgrado la sua bella sincerità, quando un’esperienza si moltiplica per decine e decine di volte nell’arco di quasi 30 anni in un ambiente straordinario dal punto di vista dell’ispirazione ma una trappola per topi dal punto di vista pratico come è purtroppo ancora l’Italia, il sociologo dice che c’è del gran buono.

Vediamo questa poiesi come avviene nella tecnica attuata dalla Seccia con le sue “Stanze del colore”.

In ordine, possiamo dire che:

  • Occorre un carisma artistico per avviare l’esperienza, e quindi la presenza di artisti riconosciuti, a testimonianza della realtà della catarsi che proviene dall’arte e anche come guida del gruppo, che deve arrivare a configurare un’opera cui verrà effettuato il completamento da parte del tutor (l’artista);
  • Occorrono materiali (colori, tela e pennelli) e un ambiente idoneo a gruppi di circa 10 persone
  • Occorrono alcuni strumenti idonei (ad esempio la Seccia utilizza, tra l’altro, le campane tibetane) a favorire un estraniamento dai problemi quotidiani nei partecipanti, in modo da favorire la condizione di meditazione (in yoga si chiamerebbe, come detto, percorso verso il samadhi, cioè mente sgombra da tutto) che è già una prefigurazione anticipata della catarsi che si produce con l’arte.
  • L’uso della pittura non è a soggetto e pertanto non richiede la conoscenza delle materie di accademia, mentre, come accade dalla fine del XIX secolo, essa è strumento di presentazione di qualcosa di intimo e profondo, in particolare oggi, collegato al senso della vista, com’è proprio delle arti visive
  • La realizzazione poi di porzioni di opera sulla tela con l’ausilio principalmente dei colori, ed è abbastanza emblematico come l’esperienza a consuntivo arrivi alla realizzazione di opere che tendono all’espressionismo più che ad altre correnti pittoriche.
  • Passato il tempo previsto, l’opera viene terminata dall’artista, che applica le sue caratteristiche estetiche al suo completamento. Per Anna Seccia questa fase avviene molto spesso con apporti del suo colore identitario (ovviamente non esclusivo), che va dal blu oltremare alla varietà degli azzurri.

Tra i fattori importanti di questo tipo di esperienza vi è la educazione sentimentale tramite l’arte. Con l’arte si ripercorre l’intero percorso formativo ai sentimenti, che non sono solo appresi come qualche famoso filosofo sostiene, ma la biologia e le neuroscienze ormai considerano la condizione sentimentale come principalmente innata e poi secondariamente come riappresa in modo riveduto e corretto.

Ma lo stato catartico dell’artista nella produzione dell’opera è l’abc, verso la primigenia presenza dei sentimenti, una rialfabetizzazione sentimentale.

Come l’amicizia e l’amore, dunque, l’arte è un sentimento, ed estremamente vario, mentre gli altri due sono sentimenti molto complessi che si creano con ipotesi di stabilità tra persone con scopi ed architetture diverse. La catarsi artistica è invece come l’acqua, che pervade tutto e dev’essere limpida e cristallina, e produce vero benessere tra coloro che hanno avuto un’esperienza abbastanza estesa e prolungata da intenderne con precisione i benefici.

L’amicizia è la costruzione di un bilancio comune tra 2 persone, che si estende per una sorta di proprietà transitiva. La proprietà transitiva si applica anche all’amore, in modo anche più forte e naturale, ma non riguarda l’intera architettura del rapporto sentimentale come è nel caso dell’amicizia. I numerosi spesso rapporti che s’instaurano al seguito di una relazione amorosa sono una miscela di quell’amore e di amicizia, ed identificano il concetto di parentela.

Le dimensioni ibride tra Amicizia, Amore e Arte sono molto interessanti sul piano scientifico e caratterizzano, con le loro soluzioni, le diverse società umane.

Le regole specifiche che assumono le aggregazioni per l’arte collettiva sono molto utili all’identità societaria e dunque risulta particolarmente brillante su questo piano l’esperienza delle Stanze del colore, che costituisce una vera palestra di quella che, nei secoli, si è presentata come la vera e profonda nobiltà umana.

Ecco allora il colore blu e il “sangue blu” di Anna Seccia: non titolo ereditato ma nobiltà conquistata sul campo, quello di una nuova arte, di tipo collettivo e relazionale, profondamente utile alla cura delle società umane. Un’arte sociatrica.

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Processo artistico e catarsi https://www.lavocedeltrentino.it/2024/03/11/processo-artistico-e-catarsi/ Mon, 11 Mar 2024 04:38:46 +0000 https://www.lavocedeltrentino.it/?p=446921 Processo artistico e catarsi

Il processo artistico è in estremo dettaglio l’esperienza di produzione da parte dell’umano di segni, oggetti cioè di percezione da parte dei nostri sensi. L’artista produce in totale libertà questi segni, con lo scopo di produrre effetti in colui che li osserva e percepisce: questi effetti si chiamiamo catarsi. L’arte vera non ha altro scopo […]

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Processo artistico e catarsi

Il processo artistico è in estremo dettaglio l’esperienza di produzione da parte dell’umano di segni, oggetti cioè di percezione da parte dei nostri sensi.

L’artista produce in totale libertà questi segni, con lo scopo di produrre effetti in colui che li osserva e percepisce: questi effetti si chiamiamo catarsi.

L’arte vera non ha altro scopo finale che produrre catarsi, e ciò è stato vero anche quando ad esempio la pittura aveva una specifica funzione, quella della memoria, non esistendo altro che la linea, la forma e il colore nel cubo della tela, con tutti i materiali del caso, mossi dalla mano umana, ad avere la possibilità di tramandare la memoria visiva di una persona, un ambiente domestico, un interno, oppure un esterno, un paesaggio.

Allora la catarsi era emozione del bello e del brutto, che andava poco oltre la magistralità della corrispondenza a ciò che l’occhio vedeva e voleva affidare alla memoria (della “tela”). Con l’avvento della fotografia, l’ascendente di questa funzione è decaduto, per lasciare l’animo ad emozioni che, riguardo alla pittura, non provengono dal rispetto della similarità e così di una vicinanza fittizia nel tempo e nello spazio all’oggetto di tale desiderio.

Ma la catarsi è rimasta la vera ricerca dell’artista, e il pittore così ha percorso altre strade. Ha capito che la catarsi è momento di sospensione, sorpresa, vacanza mentale, sollievo dalle tensioni correnti, spaesamento, instaurazione di un desiderio dell’opera che è effetto della sua percezione, cioè dei segni che, in pittura ad esempio, compaiono sul supporto, tipicamente la mitica tela oppure anche la tavola su cui opera prevalentemente oggi l’abruzzese Anna Seccia.

Perché allora non dare segni a ciò che non è visibile, o a ciò che lo è ma in modo metaforico, fino a sconfinare nella rinuncia al senso, perché chiunque vi possa proiettare il proprio, di fronte alla sorpresa? Ed ecco tutta l’arte del 900 profilarsi con la sua estrema varietà per produrre la catarsi, che è transfert, come direbbe lo psicanalista, verso l’opera ad esempio pittorica.

Tutti sanno quanto che Amore, Amicizia e Arte siano sentimenti positivi e benefici. Esiste un’educazione all’amicizia, un’educazione all’amore e un’educazione all’arte. E il risultato è valido per tutti e tre: chi sa apprezzare l’arte sarà più sensibile in amore e amicizia, e così reciprocamente.

Ecco perché l’arte ha un profondo valore pedagogico e umanitario, che non segue necessariamente l’età, ed elude le resistenze anche dei più grandi d’età. Il processo di produzione artistica percorre a ritroso il fenomeno della catarsi: il lavoro in pittura di produzione di segni sulla tela ha come progetto conscio o inconscio quello di ottenere catarsi sul fruitore. Il bravo artista (singolo o plurimo, cioè individuo da solo o individui associati nella produzione come accade nelle Stanze del colore) produce segni per ottenere catarsi.

Il suo gesto microscopico di apposizione del pennello intriso di colore in modo leggero o meno sulla tela (esempio di una tecnica classica, cui si sono aggiunti ben altri supporti, materiali, strumenti e atti…) guidato dall’occhio, include oggi sempre una domanda, conscia o inconscia: che effetto otterrò su chi vede la mia opera? È già quindi un progetto di catarsi, e la mano si muove su quell’ipotesi, simulando spesso inconsciamente il risultato, in un soggetto nascosto dentro di noi che, mentre la mano si muove, gode dell’opera, cioè precisamente di quella catarsi allucinata che si produce mentre dipingo.

Oppure mentre scrivo. O mentre compongo musica. O mentre studio coreografie e sceneggiature o mentre danzo, una compagnia opera in teatro e un cast sopra un set cinematografico.

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