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Mostre: Federico Barocci detto «il Fiori» riconquista Urbino

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Federico Barocci detto il Fiori (Urbino, 1528/1535 – Urbino, 30 settembre 1612) è tornato a casa, a Urbino, fino al 6 ottobre 2024 presso il Palazzo Ducale.

Davvero una bellissima sorpresa la sua mostra antologica alla Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale di Urbino. Avevo già notato la qualità pittorica sublime di Barocci un pezzo qua un pezzo là, un’opera al Museo degli Uffizi a Firenze, un’altra al Prado, poi all’Accademia di S. Luca a Roma, alla Galleria Borghese, al Louvre, e così avanti, un pò in tutti i più importanti musei del mondo: dunque è stata un’esperienza diffusa e ripetuta, ma, per la distribuzione dei suoi lavori in mezzo mondo, mi era sfuggita la sua cifra, importantissima eredità storica, di una mano che ha congiunto con magistralità sonante il 500 al 600, illustrando con la pittura il recupero del controllo dell’Uomo sul mondo e l’inizio dell’espressività sbrigliata, coraggiosa e originale del Barocco.

Da quando Longhi ha beatificato Caravaggio, sono tutti a cercare i collegamenti tra il lombardo e i grandi di precedente gloria, anche quando non c’entrano proprio niente, come Artemisia Gentileschi o appunto Barocci.

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Caravaggio è stato un sorprendente unicum, rivoluzione oppure no lo dirà la storia ulteriore. E grazie Longhi, per averci fatto soffermare su quel gaglioffo iracondo e sulle sue intuizioni dirompenti, che oggi sappiamo valutare ma che all’epoca gridavano allo scandalo, allo stravagante e un poco pure al cupo della morte prima dell’estrema unzione.

Senza di lui, o, meglio, senza la scoperta dello storico dell’arte per eccellenza, dal XV al XVII l’arte scorrerebbe in continuità, salvo poi rivedere tutto alla luce (il buio) che la fotografia fa calare sulla pittura dalla seconda metà del XIX, che apre a tutti i caravaggismi rivoluzionari possibili immaginabili.

Se escludiamo un attimo Caravaggio e la sua clamorosa sottolineatura nella storia dell’arte, scopriamo i grandi profili dei personaggi che passo passo ci portano da Raffaello a Rubens e poi oltre, fino allo shock della tecnologia dell’ottica fotografica.

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Mi viene da dire che la scuola degli storichetti dell’arte che si è generata dall’insegnamento del grande Longhi ha fatto purtroppo male all’estetica, a ricercare l’oggi post-rivoluzionario nello ieri, a cercare segnali di destrutturazione nel tempo che fu.

Ecco allora la grande utilità di questa antologica: svelare connessioni importantissime in serena successione storica per quella parte dell’estetica del XV e XVI secolo che guardava verso la modernità del XVII e che ancor’oggi riconosciamo con il rispetto di una paternità attiva, quella dell’Umanesimo e della sua apoteosi in Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio fino all’apice di Rubens e Guido Reni.

A osservare il percorso, presi dal vortice, non mancano Giorgione e Correggio, le cose e la luce, insomma. Ma ad accogliere Barocci alla fine del suo clamoroso percorso di vita e arte è proprio lui, il vero, grande emblema del Seicento: Pietro Paolo Rubens. Meglio chiamarlo in italiano, perché malgrado il coraggio nordeuropeo dalle Fiandre e dalla Germania, dei protestanti, Rubens è pieno di Italia, di Genova e Roma, di Venezia e Firenze. E di Barocci.

Ma cosa porta Barocci a Rubens? Gli porta la somma del Rinascimento italiano e gli apre le porte del Barocco: col disegno gli digerisce Raffaello e Leonardo da Vinci, tra la grande qualità raffaellesca del tratto e la pregevole concezione volumetrica e geometrica; con gli sfumati, che solo Leonardo padroneggiava altrettanto, dona trascendenza alle belle figure; con la forza del movimento michelangiolesco inizia a concepire una superiore movenza della forma, quella del 600 appunto. Il tutto in assoluta eccellenza esecutiva. Maniera?

Ma non scherziamo…! L’effetto antologico della grandiosa qualità barocciana ne fa una pietra miliare, anche grazie all’inserimento educatissimo dei particolari, che solo Giorgione aveva avuto il coraggio di rappresentare così e che lui, invece che ribadirli come didascalie pittoriche, usa per dare senso ulteriore e comparare spirito con materia. Così Barocci impara dal veneto gli sfondi ambientati, che per lui, poco mobile perché malato, coincidono spesso con il palazzo Ducale di Urbino, sua città e nido.

Da Correggio e Guercino gli arriva la luce, che però lui modera con sapienza per lasciare il passo alla moltiplicazione del senso semiologico dell’opera, ricca come solo in Tintoretto prima di lui.

E Caravaggio? Semplicemente assente.

Barocci è urbinate, è malato, e il suo cosmopolitismo artistico è figlio di enorme classe individuale e di una completa capacità di respiro del suo tempo. Per lui la qualità della pittura è una condizione indiscutibile. Non è come Orazio Gentileschi che ogni tanto si abbandona ad approssimazioni, pur condividendo l’eredità raffaelliana.

Barocci mette in campo il suo respiro affannoso per estrarre l’ossigeno che produce un’arte che non può proprio essere definita di maniera, come andava in quegli anni. Questa bellissima antologica, infatti, fa giustizia: Barocci è il coronamento del Rinascimento e l’apertura del coraggio seicentesco, che è Pietro Paolo Rubens, mentre Caravaggio fa il matto.

È un paradosso, ma la decontestualizzazione napoleonica con lo spoglio delle chiese, dona un rilievo non architettonico all’arte pittorica e in particolare ai soggetti sacri che l’urbinate Federico realizza. Giusto vederli fuori dal loro contesto? In un certo senso possiamo dire di sì, perché l’arte pittorica ben presto si distaccherà dai luoghi e invece creerà luoghi: la fotografia non perdona… Però, spero proprio che qualcuno ci proponga non alternative informali di realtà virtuale per le nostre estasi, ma ambientazioni delle opere d’arte sacra in quei contesti violentati dalla rivoluzione giacobina e dall’anticlericalismo politico-filosofico di Napoleone e oltre: vorrei tanto capirne il progetto di trascendenza, osservando con il visore ad alta definizione le pale d’altare di Federico Barocci sui loro altari, nel clima di quel ‘500 profondo e di quel ‘600 vorticoso, di Riforma e di Controriforma, con il calvinismo che aveva aperto porte e finestre e tutto calcolava…

Una prefigurazione di cui devo ringraziare questa mostra e i suoi curatori, Luigi Gallo e Annamaria Ambrosini Massari.

A cura di Sergio Bevilacqua 

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