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Cui Prodest

Willem De Kooning alle gallerie dell’Accademia: il vortice di americana positività

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Ogni tanto, in certe situazioni, appare ancora evidente il confronto tra locale e globale. E allora si potrebbe pensare che una piccola città debba fare sistematicamente brutta figura. Come Venezia, 40000 abitanti la città lagunare in un Comune di 250000 inclusa una relativamente estesa terraferma, con tutti i difetti per di più dell’Italia (mezza stupida, in overflow da varietà, con una civiltà democratica ridicola).

E in effetti Venezia si prende dei rischi che farebbero arrossire qualunque dimensione analoga. Ma c’è qualcosa che la salva: come davanti a una stupenda miniatura storica, a Venezia il cervello si stacca dall’ordinario ed eccolo sprofondare in un vortice di bellezza e di curiosità, sollecitato da una varietà senza fine e da una profondità che nemmeno la suggestione di un rapporto medianico con l’aldilà è in grado di produrre.

Dopo 10 anni alla guida, sentire parlare pragmaticamente Luigi Brugnaro, sindaco di questa città, è molto interessante: egli succede al Sindaco filosofo, Massimo Cacciari, che potremmo definire anche la penultima delle maschere della Commedia dell’arte goldoniana, accanto ad Arlecchino e a Colombina.

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Perché l’ultima delle stesse maschere veneziane è proprio quella del Sindaco miranese, imprenditore di successo del lavoro interinale, laureato ma con radici campagnole, radici su cui i 40000 autoctoni lagunari molto hanno scherzato in questi 9/10 anni di governo della città.

So che non se la prenderanno, Massimo e Luigi, di fronte a queste parole, perché sono entrambe persone intelligenti: o meglio, sono sicuro che Luigi apprezzerebbe, mentre sono un pò più dubbioso su Massimo, che quanto ad autoironia difetta piuttosto.

Dunque, Brugnaro ultimo Sindaco della miniatura, nei fatti di 10 anni di governo della città, ha mostrato magistralità in una delle due sole strategie possibili (1. non toccare niente; 2. rivoltarla tutta) per questa diciamo così città, anche se sociologicamente dovremmo dire microcosmo capitale, miniatura impareggiabile, enclave di astrattismo immaginario, proteina spike del virus proprio della sindrome di Stendhal.

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E dunque non fare nulla, per rispetto alla sua delicatissima ma finora (1500 anni!) efficientissima omeostasi. Accidia? No no, salubre intuito contadino: ci pensa la natura, dimostra la amministrazione del primo cittadino in carica.

E l’altro, il filosofo del Sestiere serenissimo di S. Polo? Come Sindaco, sarà ricordato per tre cose: 1. l’intervento dogale di costruzione del quarto ponte sul Canal Grande, dal passo che fa infuriare, diverso da quello uguale di mille ponti veneziani, ma ottimo per i cavalli del medioevo prossimo venturo; 2. per essere apparso come personaggio, a testimonianza del mio intuito neo-goldoniano, su una strenna di Mickey Mouse alias Topolino; 3. per avere ottimamente tenuto insieme città lagunare e terraferma, lavorando molto su Mestre.

La domanda del mondo cosmopolita, antropocenico, ipermediatizzato e globale rimane: “Ma tali straordinarie ricchezze, veri patrimoni inestimabili dell’umanità, non uno ma mille, nelle mani di siffatti provinciali?” E quanto cambia, se invece si tratta di un’istituzione museale nazionale come le Gallerie dell’Accademia, incardinata nel Ministero della Cultura come da tradizione napoleonica piuttosto odiata ancora a Venezia dai 40000? Accanto agli ottimi cervelli italici, presi uno per uno però ciascuno un otto miliardesimo dell’umanità, certo la differenza c’è, ma il malanno è solo diverso: la debolezza, la fragilità della laguna si specchia nella laguna della malattia civile, quella dell’Italia.

Però la bellezza ci salverà. E salva le istituzioni e la stessa città di Venezia, sempre e comunque. Dovrebbe finire come Atlantide per non prodursi in quel modo, ma sarebbe solo uno spostamento, con sopravvivenza garantita: dal reale che è immaginario, all’immaginario che è reale. Come Atlantide.

E allora, Tintoretto, Tiziano, Veronese sono pronti a fare da cornice alla bellissima mostra che il Direttore Giulio Manieri Elia presenta alle sue Gallerie dell’Accademia, museo statale appunto, quella dell’americano Willem De Kooning (1904-1997): un mostro sacro dell’espressionismo astratto americano, all’estremo opposto del Rinascimento veneziano.

Mostra di bellezza abbagliante. Grazie alla cornice, a Willem De Kooning, all’intelligenza della Fondazione De Kooning che usa l’occasione per rilanciare la figura del grande artista sul poco conosciuto versante delle sculture bronzee.

E grazie anche alle tre bionde nipotine dell’americano presenti alla mostra, sorridenti (le capisco…), che mostrano il mito in una curiosa dimensione familiare, patrimoniale ed ereditaria.

La scultura di De Kooning è una scoperta di grande effetto e per darle il giusto risalto i curatori, l’importante Gary Garrels, che ha lasciato il S. Francisco Museum of Modern Art (SFMOMA) per Gagosian, il Maggior Mercante, meno sensibile alle sue propensioni WASP (White Anglo Saxon Protestant), e Mario Codognato, l’hanno introdotta tramite tre pezzi emblematici, uno di Giacometti, uno di Rodin e l’altro di Medardo Rosso.

Tutto quadra, e l’esperienza è intensa. Il focus dovrebbe essere sul decennio (1959-1969) in cui l’americano si abbaglia alla luce culturale ed atmosferica italiana, e noi ringraziamo per la dedica.

Ma ciò che si vede è sempre lui, il gigante del colore, la massima autorità nell’analisi ottica della scomposizione della forma, in una esibizione di grandi quadri dove una sorta di caleidoscopio mentale fa partire la mano e produce gradevoli effetti cromatici, luminosi e gioiosi.

E poi quando già siamo intontiti da questa esperienza psichedelica, arriva l’uppercut: le sculture. Sullo sfondo della bellezza pittorica alle pareti, il centro della sala maggiore è abitato dalle figure aggraziate di una manifattura che non perde le geometrie, anche se quasi abbandona la forma.

Giusta la citazione d’esordio ai tre capiscuola novecenteschi, in quanto le sculture di De Kooning ne sono la ulteriore fusione, nel bronzo: c’è la libertà estetica di Giacometti, la figurazione impressionista di Rodin e la deformazione di Medardo Rosso. Garrels e Codognato possono essere orgogliosi: fatti, e non parole.

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