Riflessioni fra Cronaca e Storia
Riflessioni domenicali: la Risurrezione dei morti e l’uso di seppellire i defunti

Ogni domenica i cattolici ricordano la Pasqua, cioè il giorno della Risurrezione. Approfittiamone per ragionare sulla morte.
Ogni civiltà umana conosciuta ha concepito, sebbene in modi diversi, un aldilà, e un giudizio sull’anima del defunto. Ogni civiltà umana ha seppellito i suoi defunti.
Le necropoli e le tombe appartengono dunque alla natura e alla storia dell’uomo, e indicano la sua primordiale ed intuitiva credenza nell’anima, la sua consapevolezza del proprio limite (evidente in particolar modo nella mortalità), ma anche della propria grandezza e singolarità (ogni tomba appartiene ad un individuo che è ritenuto in qualche modo unico).
E gli animali? Non hanno riti funebri, né tombe né necropoli per i loro defunti.
Scrive il neuroscienziato Michael Gazzaniga: “Dunque gli altri animali dimostrano una risposta elaborata di fronte ai loro parenti o compagni morti? La maggior parte degli animali no. I leoni sembrano essere molto pratici. Possono annusare o leccare brevemente il corpo di un compagno morto di recente, e poi gettarvisi sopra per un breve spuntino. Gli scimpanzé possono avere interazioni più prolungate con un partner sociale defunto, ma abbandonano il corpo una volta cominci a diventare maleodorante…”.
Sebbene anche gli animali abbiano probabilmente una qualche forma di “consapevolezza”, variabile da specie a specie e del tutto differente da quella umana, ad essi manca la coscienza razionale della propria morte: “sembra assodato che neppure gli scimpanzè, che pure dimostrano stupore e forti sensazioni di fronte alla morte di un ‘congiunto’, siano in grado di estrapolare da questo il proprio destino individuale” (Giancarlo Genta, Franca Genta Bonelli, Il silenzio dell’universo, Lindau, Torino, 2016, p. 124).
Così il famoso etologo Danilo Mainardi (1933-2017): “Una cosa certa, anche se ovvia, è che i cani amano intensamente i loro padroni e, inoltre, che il loro attaccamento è per la vita. Da qui discende la loro meritata fama di fedeltà. Ciò che è invece difficile da comprendere e da descrivere è la qualità del loro amore che, seppure in qualche modo analogo a quello umano, non può certo essere la stessa cosa, lo stesso sentimento. È evidente, a ogni modo, che un cane è felice solo quando è col padrone e che, in caso contrario, ne sente fortemente la mancanza. Il cane d’altronde deriva dal lupo e pertanto l’attaccamento con gli altri membri della muta è essenziale per la sopravvivenza. È invece frutto d’una tendenza antropomorfizzante l’attribuire al cane un qualche senso, o speranza, di una vita oltre la morte. I cani hanno solo una conoscenza vaga e confusa di cosa sia la morte e, comunque, solo della morte altrui. Non sanno produrre quel sillogismo, così umano e conturbante: «Se tutti muoiono anch’io dovrò morire». È un’ignoranza beata, comunque, che preclude alle loro menti semplici speranze e proiezioni su un ipotetico al di là. Sono convinto che quei cani che attendono sulla tomba del padrone sperino che, prima o poi, si rifaccia vivo. Vivo sul serio, cioè nell’al di qua”.
Oltre alle tombe e alle necropoli, gli archeologi si imbattono, per ogni civiltà, in spazi sacri e templi dedicati alla divinità. E’ più facile trovare una città senza mura, sosteneva Plutarco, che una città senza templi e senza dei.
Secondo lo storico delle religioni Julien Ries (1920-2013), “l’uomo arcaico, in piedi” contempla la volta celeste: “Ne ha ammirato l’altezza, il colore, la profondità, l’immensità. Si è sentito in presenza dell’Infinito. Nel vero senso della parola, egli è un animale, in piedi, consapevole della propria esistenza, cosciente di occupare un posto specifico nel cosmo. Lo sguardo diretto alla volta celeste di giorno e di notte costituisce per lui un’esperienza più importante, più misteriosa, della caccia agli animali. Interrogandosi sul corso del sole, sulla crescita e la decrescita della luna, sul luccichio delle stelle, sul corso delle stelle cadenti, l’uomo arcaico diviene un cercatore di infinito e prende coscienza di un Infinito misterioso. A quest’uomo… il Cielo rivela, secondo l’espressione di Eliade, ‘la sua trascendenza, la sua forza e la sua sacralità’ ”.
Necropoli e tombe, templi e osservatori astronomici rimandano dunque alla particolare visione che l’uomo ha da sempre riguardo al suo posto nel mondo: le idee di un Cielo divino e dell’aldilà, impossibili o quantomeno assurde e ingiustificabili in un orizzonte puramente materiale, esprimono il suo sentirsi responsabile verso Qualcuno che lo trascende , e il suo non sentirsi completo, realizzato, “nato del tutto”, nella dimensione del finito.
In altre parole palesano il bisogno umano di una realizzazione piena, totale, che non può essere solamente terrestre e materiale.
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